‘PRECISAZIONI SU SPERIMENTALISMO E NOMADISMO’ di Giorgio di Genova
Itinerario artistico di Luciano Bertoli
A cominciare dal veloce autoritratto del 1964 in cui si rappresenta con cipiglio berniniano, risultato quest’ultimo per una personale declinazione del gestualismo informale, di qualche collateralità a Spazzapan, dopodiché ‘menestrello’ ed altre prove, un ‘pendant’ nostalgico con qualche inflessione espressionista.
Tuttavia già agli inizi degli anni settanta Bertoli sposta il suo interesse sugli oggetti meccanomorfi, che nel 1971 abbina addirittura ad una testa femminile semivelata in ‘Una macchina per l’aristocrazia’. Da tale connubio, ancora compiuto nell’opera ’71, scaturisce la simbiosi antropomeccanomorfa della serie del 1973 messe in fila nella tecnica mista ‘Silhouettes’, le cui calotte affollano poi l’omonima opera più grande di medesima tecnica. Senza tener presenti tali lavori non si comprenderebbe il bronzo, rame e legno del 1974 in ‘travasatore d’intelligenza’ in cui le teste si trasformano in pile, le calotte in coperchi, oppure in una sorta di piatti da batteria, per animare, è proprio il caso di sottolineare, la composizione tubolare che a mo’ di vasi comunicanti collega i singoli elementi da cui si protendono pericolose acuminate lame. L’artista ha definito queste opere ‘Macchine gnomi’ e tra il 1973 ed il 1979 ha loro dedicato una serie di inventivi disegni a matita ed inchiostro, che progettano con maestria ed esattezza lucida del segno, questi macchinari surreali, o meglio di patafisica, dai nomi di umoristica concettualità ’Vulc impingo’ del 1976, ’Avvita pensieri e Slappona’ del 1977, ’Opalina ’ del 1978.
Bertoli, ovviamente, è attratto dalla tecnologia fantascientifica, usufruendo della sua mente fantaingegneristica, proprio in direzione di produttore di antropoidi, che nel1984 hanno dato come risultato dapprima ‘Homo del pentagono‘, sorta di robot, e poi ‘Nascita di Hiberno‘, ragnatelata mummia del futuro, ibernata in un tronco di piramide che in occasione della personale tenuta nel 1986 nelle sale espositive ‘Civici Musei di Reggio Emilia‘ portava Massimo Mussini a parlare in catalogo di una sua evoluzione: ‘Entro un tronco di piramide posato sul terreno, traslucido blocco di ghiaccio nell’effetto prodotto dalle bianche scaglie di selenite – Glacies Mariae degli antichi alchimisti – è contenuta una sagoma umana congelata cioè in termini alchemici condotta allo stato di materia coagulata ed in attesa ormai di giungere al processo finale. Con l’accendersi delle luci interne, la formazione dell’essere nel vaso ermetico via via si manifesta, mentre alle sue spalle e ad una qualche distanza s’illumina sulla parete ‘Cauda pavonis‘ che sottolinea l’avvento della fase conclusiva dell’opus. ‘Nascita di Hiberno‘ sembra indicare anche un’evoluzione nel lavoro di Bertoli in direzione dell’abbandono dell’unità formale fino ad ora perseguita, poiché l’oggetto si scinde in più parti ed assume i connotati di un’installazione.‘ (214)
Su tali inventive basi parascientifiche l’artista emiliano a metà degli anni ottanta giunse alla serie dei ‘Marchingegni’ (1985-88), nell’ambito della quale traduce in ‘mixed media‘ e luce o acquarelli progettuali di macchine inutili e autoreferenzialmente ironiche ‘tre personaggi e mezzo in cerca …‘, ‘L’albero sonoro’, ‘Sentir nella con pennacchio’, per lo più totem a forma di pilastro o colonna, come l’acquerello ‘Sentir nelle’ del 1988, nonché le diverse opzioni di ‘Modello Ro.Ber.To. ‘, nome derivato dalla sigla dell’asse di trista memoria del periodo fascista Roma Berlino Tokyo, e ‘Guardarsi alle spalle’, così descritto da Francesco Poli: ‘Quest’ultima opera, formata da una colonna con sulla sommità una specie di alambicco sbuffante, è provvista di una sfera in metacrilato ruotante e di una lampada di Wood che produce colori luminescenti …‘ (215).
Bertoli in realtà ricongiunge l’arte alla scienza, ovvero alla tecnica (=Ƭέχvη), com’era nell’antichità (216), naturalmente da uomo del ‘900, pertanto, ancorché egli attinga quasi completamente agli oggetti della quotidianità, arricchisce i suoi ‘lavori ingegnosi‘ di meccanica avanzata con l’elettronica ed altri mezzi della produzione industriale, comprese le macchine a controllo numerico, per cui le sue ‘micro produzioni‘, come egli le definisce (217), mimano inventivamente non solo le macchine dotate di motore, sia minuscole ‘Virtuosine minime‘,‘Virtuose‘, 1989, ‘Ciber‘ 1993, che producono emissioni sonore a contatto ‘Fonéma del silenzio‘, 1990
Ma pure gli impianti industriali, com’é per ‘Pro fanciulli redenti‘ e ‘To Fall Out of Tune‘ del 1989, che emettono suoni e luci, similmente al parietale ‘Convoglio pensile‘ del 1992, quando non si sbizzarrisce in una sorta di ‘segnalatori cosmici‘‘Blindosbarre‘ del1991, ‘Felix 1995’ eseguito nel 1993 o ‘ricettori‘ di segnali radio stellari ‘Il criterio fondamentale’ del 1994-95.
La produzione di Bertoli è un ingegneria ludica, che affonda le sue radici anche nel Concettuale, nella fattispecie declinazione di Enrico Castellani (218), l’artista emiliano infatti gioca ingegneristicamente con le sue capacità aggregative e nozioni matematico-meccaniche, nonché sonore, dinamiche ed elettriche/elettroniche. E’ il gioco l’ha portato lontano dalle origini, si sa che continua a covare nell’intimo, generando nostalgie che lo spingono al ritorno bio concettuale. Ritorno che Bertoli nella seconda metà degli anni Novanta ha attuato, dapprima in maniera circospetta col disegno ‘Gocce nere’ del 1997, poi in modo più dichiarato nella serie ‘Sottovuoto’ oli e plexiglas del 1998, preludenti assieme al disegno del ’97, per certi aspetti (219), alle sfere con sembianze di volto umano in disfacimento o in formazione, messe sotto luce e un liquido, nell’anonima opera ambiente ‘Gocce nere‘, del 1998,in cui appese al soffitto di un locale buio, ciascuna di esse diventa epifania di ‘Gocce‘ di una pioggia notturna.
Nel 1996 – ’97, del resto, il ritorno alle origini s’incardina su una sorta di rinascita della materia nelle due polarità dell’inorganico e dell’organico. Tutto ricomincia, come se l’immaginario scientifico di Bertoli, in una retromarcia radicale, che gli fa scoprire l’importanza di certe materie collaterali a quelle usate da Beuys nei suoi ‘imbrattamenti‘ ambientali e oggettuali, avesse avuto un’illuminazione relativamente alla vitalità insita nella decomposizione di un corpo non più vivo (non a caso ‘Il Rotifero di Vienna’, realizzato nella personale del 1999 alla Galleria Licantro a Vienna, è esposto in un sarcofago). Ma in questo caso non si tratta di decomposizione della carne, bensì della decomposizione delle macchine, che nella loro agonia emettono le ultime scariche elettroniche interattive al processo metamorfico dell’organico, dalle palesi parentele con ‘post-human‘, diffusori nell’arte negli anni Novanta (220).
Propedeutici di questa germinale mortifera opera ‘Slag Pad‘ del 1996 – ’97. ‘Slag Pad II‘ del 1997. In essi il delirio artistico –scientifico dell’artista reggiano non solo aveva dato vita al materismo informale, ma lo aveva portato alle estreme conseguenze, spostandolo alla postmoderna tradizione neodada delle macchine inutili, in questo caso ‘lubrificate‘ dalle materie gelatinose e ripugnanti, per un protettivo soddisfacimento delle personali pulsioni coprofile e necrofile, riemerse in opposizione all’illogicità della logica ingegneristica delle ‘Macchine Gnomi’ e dei ‘Marchingegni’, che probabilmente erano frutto di un insistita repressione nei confronti di una rimozione sempre in bilico sui confini estetici. Se si leggono i postumani ‘Slag Pad‘ e ‘Slag Pad II‘, come sintomi di un cedimento verso il fallimento della rimossa coprofilia, s’intenderà come tale processo raggiungerà il suo traguardo nella necrofilia del ‘Rotifero di Vienna‘ del 1998-’99.
Non a caso Bertoli intitola ‘Attraenza negativa‘ il testo in cui tratta di ‘Slag Pad‘, tenendo a chiarire che egli nei confronti dei processi della sua ‘dialettica artificiale’ e materiale addotta un atteggiamento neutrale, ‘senza prendere posizioni ma semplicemente registrare gli avvenimenti ciò che avviene o che sta per avvenire’. Tuttavia egli ipotizza un ‘realismo possibile‘ nelle alchimie dei suoi ‘mix ibridi, tautologia di un lavoro ‘limite’ come si vede ‘Slag Pad’, che è un multiplo imprigionabile, una macchina mobile, che nel suo interno contiene materia organica – inorganica, riposta in una serie di nicchie duali, per essere facilmente chiuse e nascoste, in cui ‘Giacciono anneriti tronchi di corpi ‘Cyborg’, calati in apposite vasche placentali, un insieme ibrido di parti elettriche – chips – eprom, inserite nei corpi stessi, parte in funzione e altre disattivate. Regna il disordine, l’abbandono, i vapori, i liquidi gestanti che formano gelatine (Il glutine attivo) solubili schiume di batteri di vita e di morte si incrociano, connettono, mutano in nuove forme, si sposano, danno vita‘ (221)
C’è un sostrato pessimistico, in rapporto sia alla natura sia alla vita, in questi neri pantani, viscosi ‘brodi‘ di colture germinative, che affondano nelle memorie adolescenziali (222). L’immaginario di Bertoli, ‘procreando‘ sulla scorta delle prime scoperte dei genitali, non è immune da associazioni alla sessualità, così che nel 1999 al vaginale disegno ‘Wolframia‘ egli contrappone complementalmente il fallico ‘Tungsteno’ che traduce la foto eretto ‘a misura variabile‘ del 1996 anch’esso intitolato ‘Tungsteno‘ in quanto ricoperto di una scura patina, certo per rimando ai ricordi dell’infanzia, ma arricchiti con quelli relativi alla prima fase alchemica della ‘nigredo’, che nel suo caso si mescola con ‘l’attraenza negativa’ … ‘paradigma di antropologia delle cose respingenti‘, considerate immorali dalla cultura ufficiale: ‘L’attraenza negativa‘, come flussi di una rinnovata freschezza, che riapre alla memoria la mia scoperta del gioco, il fragore dei ‘begher‘ di chi lo sa, delle estenuanti attese lunghe e assolate, dalle esplorazioni naturali, alle scoperte dei nostri organi sessuali, le prime pratiche collettive di tutti in fila gridando ‘Tungsteno’ dentro la capanna di canne di granturco secco e scoprire che lo sperma umano non è altro che una gelatina, quasi come il glutine delle rane‘ (223)
Su questa strada, punto di confluenza di vari sentieri di memorie, scoperte e agnizioni adolescenziali, nonché di conoscenze relative alla meccanica, l’elettronica e la cibernetica Bertoli giunge all’esposizione del cadavere del ‘Rotifero di Vienna‘.‘Nella camera ardente‘ della galleria Licandro di Vienna, appunto approntata con accurato rituale. Per tale ritualistico lavoro, prima di descriverlo, Boris Brollo fa giustamente riferimento agli esperimenti di Lazzaro Spallanzani, scienziato del Settecento, il quale a Reggio Emilia, città di Bertoli (224), insegnò logica e matematica: ‘Nel 1999, Bertoli è a Vienna in galleria. Sta preparando gli ingredienti del suo lavoro: gelatine, gomme, transistor … e aspetta che prima o poi quelle gelatine e gli altri ingredienti si trasformino da materia indifferenziata in quel qualcosa di differente, cioè capace di suscitare in noi ‘altri‘ stimoli e anche la casualità veramente miracolosa che è stata ottenuta con una semplice goccia d’acqua dallo Spallanzani. Prima o poi il magma esposto all’occhio muterà, la superficie indurirà eccitando in tal modo l’organo ricettore e la parte interna germinerà (corpo mutoide). Il Rotifero di Vienna è impostato sulla definizione di ‘probabilità‘ come causa effetto e, inoltre, ha l’ignoto come leitmotiv delle sue creazioni. Sotto la superficie gelatinosa c’è l’ignoto che pulsa, che sta per emergere. L’organico guarda l’inorganico, noi guardiamo pietosi l’essere indefinito che guarda chi lo guarda – s’illumina si confronta, si connette, germina‘ (225).